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Il vino e “le fraschette” dei Castelli Romani

L’origine della vitivinicoltura nei Castelli Romani si perde in epoche lontane fino a confondersi con la mitologia. Le leggende nate sulla vite e sul vino sono, infatti, numerose e hanno sempre come protagonista un Dio che dona la preziosa piantina all’uomo. 

Il vino da Giano a Cicerone

Saturno, scacciato dall’Olimpo dal padre Giove, si rifugia nel Lazio e più propriamente nei Castelli dove insegna la coltivazione della vite a Giano (di cui il nome Enotrio). Numa Pompilio, secondo Re di Roma, trovò a Nemi la piantina e decise di portarla a Roma, insieme a un albero di fico e a un ramoscello di olivo.

Tutti e tre gli alberelli trovarono dimora nel Foro, acquistando un significato sacro e simbolico. I Romani svilupparono velocemente la coltivazione della vite tanto che ai tempi della Prima Repubblica il vino prodotto localmente non copriva più le richieste. Cicerone dalla sua Villa al Tuscolo scriveva “… della vite mi piace non soltanto la sua utilità, … ma anche la coltivazione e la natura stessa…”

La viticoltura approda ai Castelli Romani

Gli Statuti concessi alla città di Frascati da Marcantonio Colonna, Signore e Vicario di Papa Giulio II della Rovere, datati 1515, stabilivano le zone da destinare a vigneto, le modalità per determinare l’epoca della vendemmia e regolavano il commercio del vino.

Sante Lacerio, bottigliere di Papa Paolo III (1534-1549), in una lettera sulla qualità dei vini in circolazione afferma che il vino migliore si produce a suo giudizio a Frascati, Marino Grottaferrata.

La nuova concezione filosofica del Rinascimento, che riportava l’uomo e la sua vita secolare al centro dell’attenzione, diede nuovo impulso alla ricerca e alla valorizzazione dei beni terreni. Desiderosi di beneficiare del clima salutare del Tuscolano, Papi, cortigiani ed esponenti delle ricche famiglie romane ricostruirono Ville e Palazzi abbandonati, e, con loro, anche le attività nei campi ripresero nuova vita.

I Papi e le fraschette

Le oltre mille osterie del territorio, le fraschette”, segnalate da una frasca quasi sempre di alloro appesa fuori l’ingresso del locale, affascinavano i romani, i nobili e i visitatori di passaggio, ed erano quasi tutte di proprietà dei produttori di vino, e, intorno ad esse, nacquero riti e costumi che sono arrivati fino ad oggi. In queste osterie si beve “il vino dei Castelli” servito in particolari contenitori in vetro che si lega alla storia dei Papi.

Le tasse sul vino procuravano parecchie entrate alla chiesa, per cui a metà del ‘500 gli osti usavano riempire in modo fraudolento il recipiente fatto principalmente di terracotta o metallo. Non riempendo completamente il boccale gli osti “raggiravano” i clienti con la cosidetta “sfogliettatura”.

Per evitare questo malcostume Papa Sisto V Peretti, francescano di ferro, fece fabbricare contenitori in vetro di diverse capacità in modo si potesse controllare l’esatta quantità di vino servito.

Nel 1580, inoltre, fu aggiunta la “mezza fojetta” da Gregorio XIII nella speranza di limitare il consumo di vino da parte dei romani.

Le misure:

  • er barzillai (dal nome di un politico romano di fine ‘800, inizio ‘900, che usava offrire vino in gran quantità ai suoi elettori.) = 2 litri
  • tubbo = 1 litro
  • fojetta = 1/2 litro
  • quartino (o ½ fojetta) = 1/4 di litro
  • chierichetto = 1/5 di litro
  • sospiro (o sottovoce – perché pronunciato a bassa voce, perché piccolo… o ci si vergognava di non aver abbastanza denaro per bere di più!) =  1/10 di litro

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A cura de il NETWORK | testo e foto Ezio Bocci

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